venerdì 5 agosto 2016

Gramsci, Manzoni e mia suocera. Quando gli esperti sbagliano le previsioni politiche

Scritto nel 2011, dopo il successo del “sì” ai quattro quesiti referendari su acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento, questo libretto di Ilvo Diamanti (Gramsci, Manzoni e mia suocera. Quando gli esperti sbagliano le previsioni politiche, Il Mulino, 2011) suona come un j’accuse nei confronti di un certo approccio, impostosi negli anni come dominante nella disciplina politologica. La tesi di fondo, come suggerisce il sottotitolo, muove dalla presa d’atto che la scienza politica, sapere specialistico fondato sull’osservazione dei fenomeni e sulla formulazione di ipotesi da verificare empiricamente, non sempre azzecca le «previsioni». Chiaramente, in questa sede diamo per scontato che le «previsioni» formulate nell’ambito delle scienze sociali non possono minimamente essere associate a quelle elaborate dalle scienze «fisiche». Come spiega bene Angelo Panebianco in un saggio del 1989[1], rifacendosi ad Hempel, le previsioni delle scienze sociali non sono altro che «generalizzazioni su base statistica» (del tipo: se A, allora B nel 70% dei casi) e quindi più assimilabili a induzioni di tipo probabilistico.

Diamanti imputa alla scienza politica classica di aver adottato un approccio eccessivamente focalizzato sulle istituzioni (lo Stato, i partiti, i Governi…) che si esaurisce in un’analisi che esclude le variabili sociali, locali e personali, in base ad un rigido steccato disciplinare che, tradizionalmente, secondo la distinzione operata da Giovanni Sartori, ha separato la sociologia – scienza che studia la società per spiegare la politica – dalla scienza politica – disciplina che, utilizzando un approccio istituzionale, top-down, focalizzato sugli attori che operano in politica, esamina come, viceversa, lo Stato influenzi la società (p. 16-17). L’autore ritiene che, adottando questo approccio di gran lunga dominante, gli scienziati politici abbiano totalmente perso di vista ciò che accade a livello sociale, ritenendo che la società e le relazioni interpersonali che in essa si sviluppano fossero variabili meramente dipendenti dalla politica. Che l’interazione fra le due sfere, insomma, fosse univoca e che le variabili sociali, locali, personali non meritassero in fin dei conti di essere prese in considerazione, in quanto ritenute irrilevanti ai fini della spiegazione e della previsione. Da ciò deriverebbe un ineluttabile quanto deleterio scollamento, per le capacità esplicative e «predittive» della scienza politica, fra «previsioni» e «realtà». Quello che in Antonio Gramsci, che riprendeva una dicotomia da I promessi sposi, è il trade-off fra «buon senso» e «senso comune», ossia fra la convinzione, diffusa fra alcuni milanesi del Seicento e ben narrata da Alessandro Manzoni, che gli untori non fossero realmente portatori della peste e l’«opinione volgare diffusa» che in realtà fossero proprio loro i responsabili e per questo andassero perseguitati. Una confusione, quella fra il «buon senso» che all’epoca della peste restava celato per paura del «senso comune», che si riproduce oggi all’interno della comunità politologica, portando gli scienziati politici a sottovalutare o tralasciare la rilevanza di variabili sociali, locali e personali, preferendo un’analisi «istituzionale», «macro», in conformità all’incedere di un prepotente ed altrettanto fuorviante «senso comune», frutto, a sua volta, del ricorso ad approcci teorici e strumenti metodologici del tutto «inadeguati» a render conto dei fenomeni politici più rilevanti.

Sarebbero due, nello specifico, gli oggetti di ricerca in cui gli scienziati politici avrebbero clamorosamente sbagliato a formulare le loro analisi e «previsioni», ed è a partire da essi che si sviluppa la polemica di Diamanti: le tipologie di voto e i connessi rapporti fra elettori e partiti e le subculture politiche territoriali. Per quanto riguarda il primo tema, a partire dalla classica tripartizione operata in Italia da Gianfranco Pasquino e Arturo Parisi nel 1977[2], la scienza politica avrebbe sottovalutato l’importanza, ancor oggi persistente e diffusa, del cosiddetto «voto di appartenenza». La vulgata politologica che va per la maggiore sostiene, infatti, che col crollo delle ideologie e dei sistemi di credenza che un tempo strutturavano il voto, la tipologia del voto di appartenenza avesse perso la sua pregnanza e la sua stessa diffusione su territorio, a beneficio del voto di opinione e del voto di scambio. Il sistema politico, in sostanza, si sarebbe avviato verso quella che Bernard Manin nel 1996 ha definito la «democrazia del pubblico»[3], fondata, per dirla con Zygmund Bauman, sul «voto liquido» e caratterizzata da un rapporto più diretto del leader con il proprio elettorato di riferimento, senza altre mediazioni e tale per cui il pubblico stesso si troverebbe impossibilitato a formulare domande politiche ma si troverebbe limitato alla mera possibilità di reagire, proprio come fanno gli spettatori che, assistendo ad un'opera teatrale, si limitano a reagire alla recita degli attori. Chiaramente, Diamanti considera monca questa spiegazione dell’evoluzione della politica poiché essa non tiene conto del fatto che la politica, oggi forse ancor più di ieri, costituisce una sorta di specchio della società ove le dinamiche e i vizi del popolo si riproducono con estrema facilità. Laddove, «le campagne elettorali più efficaci sono quelle che mirano non tanto a “cambiare il senso comune”, ma, semmai a intercettarlo e a inscriverlo all’interno delle proprie strategie politiche e comunicative. Oppure a ricostruirlo in base a nuovi frames che sfruttano le stesse linee di divisione del passato, ricorrendo alle stesse parole, alle stesse formule. Adeguatamente risemantizzate» (p. 96). Non ci spiegheremmo diversamente, asserisce Diamanti, il successo di un personaggio come Silvio Berlusconi (e, aggiungerei io, di leader quali Salvini, Grillo e Renzi): «lo dimostra il ricorso al termine “comunismo”, divenuto di moda e utilizzato come mai era avvenuto dopo la caduta del Muro di Berlino. Anche se, come abbiamo detto, ha cambiato significato e contenuto. Più che un’ideologia, una dottrina, una famiglia storica di partiti, evoca oggi l’ingerenza del pubblico, dello Stato, del fisco. La rottura delle tradizioni locali, dei miti e dei riti religiosi. Il “comunismo”, in altri termini, è stato trasferito da un piano politico e dottrinale a un piano popolare e populista. Fatto defluire nel senso comune» (pp. 96-97).


Da osservatore della politica turca, una considerazione mi sorge spontanea. Diversamente da quello a cui la vulgata pubblicistica ci ha abituato, il successo politico dell’attuale Presidente Recep Tayyip Erdogan non va imputato alla sua presunta volontà di fare della Turchia una teocrazia fondata sulla shari’a; al contrario, siamo in presenza di un leader politico scaltro e populista, davvero capace di ascoltare il popolo che lo ha eletto e di interpretarne vizi e virtù, abilissimo ad annusare il clima che si respira a livello sociale e ad incanalare nel progetto politico dell’AK Parti, che lui presiede, le istanze stesse che la società avanza dinanzi alla politica, riflesso delle tendenze di fondo che sono sempre state presenti in Turchia, che fanno parte della sua cultura di fondo e che mettono in discussione, oggi più che mai, il progetto istituzionale fondato sulla laicità e sui valori repubblicani del padre fondatore di quel Paese, Mustafa Kemal Ataturk. E’ esattamente questo retroterra culturale, che Erdogan incarna in modo sincero (la sua fede religiosa ed il suo zelo ne sono viva testimonianza), che rende possibile il progetto che sembra prender forma in Turchia in queste settimane: la trasformazione di un sistema parzialmente democratico e pluralista in un regime autoritario nelle mani di un leader unico, eppure legittimato dalla maggioranza del popolo turco.

Le considerazioni or ora fatte non significano, per tornare al libro di Ilvo Diamanti, che oggi gli elettori votino in maniera irrazionale rispetto a ieri, quando il voto di appartenenza si credeva fosse più diffuso, bensì lo fanno rispondendo ad una razionalità che, come indicato da Max Weber, non è unicamente strumentale ma diventa assiologica, ossia orientata ai valori e dai valori che si radicano fra le persone all’interno della società (pp. 94-95). Proprio per questo motivo, secondo Ilvo Diamanti non ha molto senso parlare di declino del voto di appartenenza. Le stesse subculture politiche territoriali sono sopravvissute nel tempo senza tramontare e, nonostante il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e il disfacimento del sistema dei partiti della Prima Repubblica, molti orientamenti di voto dell’Italia di oggi restano coerenti con i valori di fondo dell’Italia di ieri. Semplicemente, per utilizzare una metafora cromatica che lo stesso Diamanti ha adoperato altrove[4], è cambiato il cromatismo: il centro-Italia da «rosso» è divenuto «rosa», combinando la tradizione del PCI con quella della sinistra DC, mentre il NordEst, soprattutto nelle zone pedemontane, da «bianco» è diventato «verde». Ma, come sostenuto da Marco Almagisti nei suoi lavori[5], il passaggio dall’egemonia della DC al trionfo della Lega è semplicemente l’espressione diretta di una tendenza di fondo culturale tipica delle aree nordestine: il localismo combinato con un senso di diffidenza verso ogni centralismo e politiche di assistenza al Mezzogiorno da parte dello Stato unitario italiano, atteggiamento affermatosi molto tempo prima dell’avvento del partito di Umberto Bossi.

In sostanza, afferma Diamanti, non è pensabile che il «clima d’opinione generale» sia influenzato e determinato unicamente dall’alto, dalle istituzioni, dai leader, dalla politica; al contrario, esso risulta dall’incontro fra questi stimoli top-down e i «micro-climi» che si generano autonomamente dal basso. Sono poi i leader a reinterpretare questi micro-climi e a riprodurli «attraverso le reti sociali e personali che popolano il territorio» (pp. 83-84). Insomma, secondo Diamanti, «è dunque difficile capire quel che succede nella politica senza tener conto della vita quotidiana, del senso comune, del territorio. Senza esplorare in profondità i luoghi dove i partiti, le istituzioni, la democrazia trovano le basi della loro legittimazione e del loro consenso» (p. 103).

A conclusione di questo sentito pamphlet, le cui tesi di fondo l’autore ha avuto modo di discutere durante i lavori del Congresso della Società Italiana di Scienza Politica del 2010 a Venezia, l’invito, rivolto alla comunità politologica di cui fa parte, è quindi quello di «fare i conti col “senso comune”, il deposito di credenze e di significati “dati per scontati”; il tessuto di abitudini familiari all’interno delle quali noi agiamo e alle quali noi pensiamo per la maggior parte del nostro tempo”, come recitano Berger e Luckmann; l’insieme dei frames a cui ricorriamo per attribuire significato agli eventi e, prima ancora, alle parole che affollano il nostro mondo, la nostra vita quotidiana» (p. 93); lo stesso senso comune che emerge dall’invettiva che quella vecchina, incontrata al supermercato dalla suocera dell’autore, pronuncia contro Prodi, additato quale responsabile del disastro economico dell’Italia, benché a capo del Governo ci fosse da anni Berlusconi; quello stesso senso comune che si esprime a livello popolare dalla tendenza degli elettori a frequentare cerchie di persone che la pensano allo stesso modo, a seguire trasmissioni televisive che confermano le loro stesse credenze, a rinunciare al confronto critico, disconoscendo la realtà per come essa è (p. 78). L’appello, insomma, a recuperare quel «buon senso» gramsciano volto ad indagare la sfera micro-sociale che spesso diversi suoi colleghi politologi hanno smarrito, lasciandosi condizionare da un altro «senso comune», quello che si è imposto per convenzione nella disciplina, col risultato (negativo e controproducente) di fallire nell’impresa umana (comunque ardua) di indagare in modo cristallino quella che Nicolò Machiavelli aveva definito cinquecento anni fa «la verità effettuale della cosa».




[1] Angelo Panebianco, Introduzione, in Angelo Panebianco (a cura di), L’analisi della Politica, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 13-65.
[2] Gianfranco Pasquino Arturo Parisi (a cura di), Continuità e mutamento elettorale in Italia. le elezioni del 20 giugno 1976 e il sistema politico italiano, Il Mulino, Bologna 1977
[3] Bernard Manin, Principi del governo rappresentativo. Dalla democrazia dei partiti alla democrazia del pubblico, Il Mulino, Bologna, 2010
[4] Ilvo Diamanti, Mappe dell’Italia politica. Bianco, rosso, verde, azzurro e… tricolore, Il Mulino 2009
[5] Ad esempio, Marco Almagisti, Una democrazia possibile. Politica e territorio nell’Italia contemporanea, Carocci 2016

Nessun commento:

Posta un commento